Eterosessuale, poco più che adolescente e in un caso su due donna. È il nuovo identikit della persona sieropositiva all’Aids, cui si affianca un secondo, grande gruppo, sempre di eterosessuali, ma prevalentemente maschi tra i 40 e i-50 anni. A 25 anni dalla scoperta del virus Hiv e a 10 dall’arrivo delle prime cure efficaci, nella giornata dedicata all’infezione che finora ha colpito oltre 38 milioni di individui nel mondo, 56 mila dei quali in Italia (34.757 i morti al 31/12/2005), si scopre che molti hanno abbassato la guardia, tanto che il numero delle nuove infezioni, che l’anno scorso sono state 1577, sembra di nuovo in crescita.
All’origine l’ignoranza del problema da parte dei giovani alle prime esperienze sessuali, anche per il discutibile calo dell’informazione istituzionale negli ultimi anni, e una diffusa incoscienza degli adulti che, pur conoscendo l’Aids, rischiano di nuovo, contando sul fatto che chi s’infetta oggi, per quanto non possa guarire, perlomeno non morirà. Sia nei giovani che negli eterosessuali adulti sono in aumento i rapporti promiscui senza le dovute precauzioni profilattiche, né il controllo periodico coi test della sieropositività col preoccupante risultato che il sieropositivo diventa un rischio per sé, in quanto si cura tardivamente, e per la collettività. Proprio quando la malattia cominciava ad essere sotto controllo anche in Italia è di nuovo allarme e si conferma il rapporto eterosessuale la modalità d’infezione più frequente.
L’allerta è lanciato da uno dei massimi esperti della malattia, Mauro Moroni, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’Università di Milano, che dice: “In Italia si sta facendo poco per la prevenzione e le conseguenze sono gravi. I giovani di oggi non sono più bombardati, come i loro coetanei degli anni ’80, da campagne informative sui pericoli di contrarre il virus dell’Hiv. E la conseguenza è che si ammalano anche perchè ormai sono attivi sessualmente molto presto e nessuno dice loro come comportarsi”.
E pensare che investire nella prevenzione dell’Aids sarebbe remunerativo per la sanità: “Uno studio Usa ha dimostrato che il denaro pubblico investito nella prevenzione dell’Aids è il più redditizio”, dice Moroni, “un solo dollaro produce vantaggi per ben 40 dollari”. Ma il problema è anche che quel poco che si fa, a livello di campagne di prevenzione, spesso contiene messaggi discutibili e poco efficaci. In proposito Moroni non lesina critiche per un recente spot televisivo del ministero della Salute in cui non compare mai la parola preservativo: “Una scelta condizionata da situazioni politiche, con conseguenze sulla salute”.
È stata ancora più esplicita al recente convegno “Hiv&Real Life”, organizzato a Roma dal Nps-Network Italiano Persone Sieropositive, la presidente del Nps, Rosaria Iardino: “Non si parla mai di profilattico quando si lanciano messaggi di prevenzione dell’Aids perché in Italia l’intreccio tra Vaticano e politica resta forte e la cultura cattolica ha la preponderanza”. Dal convegno è anche emersa un’altra esigenza, quella di elaborare un modello sociale, culturale e assistenziale più rispondente alla nuova dimensione della malattia ormai cronica, che vede sempre più spesso il sieropositivo di fronte al problema dell’accesso alle cure e del reinserimento lavorativo. Notevoli i progressi della terapia che oggi salva la vita, purché si intraprenda precocemente e non si interrompa mai.
Altre speranze sono riposte nella ricerca del vaccino, in cui l’Italia sta facendo la sua parte. Se ne sta sperimentando uno, realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità. Si basa sulla proteina “Tat”, da usare sia in funzione preventiva che terapeutica ed è già completata la fase 1, di verifica della sicurezza e dell’immunogenicità, su due ristretti campioni di soggetti: uno di persone sane e uno di sieropositivi. “I dati clinici indicano che il vaccino è sicuro e che induce una risposta immune sia nei soggetti sani che nei sieropositivi”, dice la professoressa Barbara Ensoli, coordinatrice dello studio e responsabile del Centro nazionale Aids dell’Iss. Tarda invece per carenza di fondi l’avvio della fase 2, che estenderà la sperimentazione, preventiva e terapeutica, ad una popolazione più ampia di soggetti, coinvolgendo anche le aree africane ed asiatiche in cui l’infezione è endemica. “Il ministro della Salute ha confermato l’impegno a far arrivare il prima possibile il finanziamento”, dice la Ensoli: “I fondi previsti sono 7 milioni di euro all’anno per tre anni. La fase 2”, spiega ancora la Ensoli, “sarà condotta su persone sane e su malati, a scopo terapeutico, e si effettuerà inizialmente in Italia per svilupparsi poi in Africa”. Tempi previsti: due-tre anni circa, poi seguirà la fase 3. Se la sperimentazione riprendesse l’anno prossimo il vaccino potrebbe essere pronto nel 2012.