All’ospedale Sant’Anna di Torino, da quando l’anno scorso è partita la sperimentazione che si concluderà dopo l’estate, l’aborto con Ru486 è stato proposto a più di 300 donne. Ispezioni, commissari, inchieste, polemiche: tutte iniziative per bloccare l’impiego di farmaci in luogo dell’intervento chirurgico. Ora il ministro della Salute deve decidere. Matilde, 23 anni, arriva puntuale alle 10 di mattina al colloquio fissato per telefono con il consultorio familiare di zona. Fa il colloquio e, secondo il copione, aspetta sette giorni “per rifletterci” sopra. Poi si presenta all’ospedale previsto per prenotare l’interruzione di gravidanza.

Una scelta sofferta, ma ha da poco trovato un impiego a tempo indeterminato e sarebbe un problema. Come la prenderebbe il datore di lavoro? E come affrontare le spese di un figlio senza un soldo da parte? All’ospedale Buzzi di Milano le offrono un’alternativa all’aborto chirurgico. Lo fanno da qualche mese.

“Invece dell’anestesia, con tutta la paura che mi fa, invece delle gambe aperte in attesa che il mio corpo venga esplorato da altri, un farmaco per via intramuscolare, che si chiama methotrexate” racconta Matilde. È un antitumorale che blocca lo sviluppo della placenta. Le spiegano come. Si tratta di tornare dopo una settimana per prendere un altro medicinale e, a quel punto, l’aborto avviene in giornata. Va fatto entro l’ottava settimana e lei, Matilde, rientra nei termini.

Il Buzzi, più noto a Milano come “ospedale per i bambini”, dove si sono eseguiti in sei mesi una cinquantina di aborti medici con quel farmaco, finisce nel ciclone. Arrivano i commissari dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco, e il direttore generale degli Istituti clinici di perfezionamento, di cui il Buzzi fa parte, nomina due esperti per un parere tecnico. Viene fatta un’interrogazione parlamentare. Si attiva anche Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia: si attende il responso. Ma perché tutto questo?

Il methotrexate, proposto in alternativa all’aborto chirurgico, è usato da tempo in Italia per interrompere le gravidanze extrauterine. E una legge del 1998, la legge Di Bella, consente l’utilizzo “off label”, cioè oltre le prescrizioni sul foglietto illustrativo, di alcuni farmaci.

E dunque, dicono al Buzzi, perché si sarebbe dovuto chiedere il consenso del comitato etico e fare sperimentazione per un farmaco registrato e regolarmente in commercio? “Abbiamo usato methotrexate più misopristolo, in casi selezionati, in alternativa clinica all’aborto tradizionale con aspirazione o raschiamento, ponendo sempre in primo piano la scelta e la salute della donna” spiega Umberto Nicolini, primario di ginecologia al Buzzi, che da quando è scoppiato il caso ha poca voglia di parlarne.

“Molti dei farmaci in commercio, il 60 per cento, sono usati per indicazioni diverse dal foglietto illustrativo. Basti pensare all’aspirina che oggi si prende in gravidanza per prevenire la gestosi, ma nel foglietto questo non c’è scritto” sottolinea.

Ma i contrari, Formigoni in testa, in aperta polemica con l’ex ministro della Salute Umberto Veronesi, insistono: si sarebbe dovuta seguire la trafila, sperimentazione con il consenso del comitato etico. È questa, sembra, anche la posizione dell’attuale ministro Livia Turco.

In base alla legge Di Bella, infatti, l’uso di un farmaco fuori dalle indicazioni per cui è approvato dovrebbe essere occasionale, non di routine. “Polemiche, contrapposizioni spesso solo ideologiche, non scientifiche, di cui al solito a fare le spese sono le donne che non hanno la possibilità di parola e di scelta” commenta Anita Regalia, ginecologa al S. Gerardo di Monza.

È solo l’ultimo fronte della battaglia sull’aborto farmacologico. Cominciò cinque anni fa Silvio Viale, ginecologo del Sant’Anna di Torino e militante radicale, chiedendo l’autorizzazione per avviare una sperimentazione della pillola Ru486 (che non va confusa con la pillola anticoncezionale), introdotta tra il ’99 e il 2000 in quasi tutti i paesi europei, oltre che in Cina e negli Stati Uniti, come metodo alternativo all’aborto chirurgico.

Anni di contrasti, proteste di segno opposto da parte di esponenti politici e religiosi, ispezioni ministeriali, poi, a settembre 2005, la sperimentazione è partita. Con l’autorizzazione del ministero della Salute a eseguire 400 interruzioni di gravidanza con il metodo “sperimentale”. Che tanto sperimentale non è, visto che per esempio in Francia si eseguono così il 40 per cento circa degli aborti, come in Svezia e Scozia.

Venti giorni dopo, un’ordinanza dell’ex ministro della Salute Francesco Storace bloccò la sperimentazione: non rispettava le norme della legge 194, secondo cui l’aborto deve avvenire in ospedale. Nel protocollo del Sant’Anna la donna prende le pillole e poi va a casa.

Però il divieto è stato aggirato con uno stratagemma: “La donna è in regime di ricovero ordinario ma, se non ci sono ostacoli medici, può chiedere il permesso e lasciare l’ospedale” ricorda Viale, che dalla fine di giugno è indagato dalla Procura di Torino sempre per presunta violazione della legge 194.

Dopo l’estate, la sperimentazione si concluderà. I risultati, dice Viale, sono in linea con quelli della letteratura scientifica: la pillola abortiva funziona nel 95 per cento dei casi, nel restante 5 per cento bisogna ricorrere comunque alla revisione chirurgica dell’utero.